passaggio di consegne tra due bandiere azzurre
1957-1969
La ricostruzione dopo la serie A
Persa la serie A, il Novara si avvia ad un rinnovamento complessivo dei ranghi. Siamo a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta. Non una storia di grandi imprese sportive, anzi, ma molto intensa, questo sì. Sfumata la massima serie, gli azzurri retrocedono addirittura per due volte in serie C. La prima, addirittura per un illecito sportivo, ma risalgono subito. In mezzo c’è lo storico spareggio con la Triestina. Lasciano progressivamente campioni come Corghi, Pombia, De Togni e Feccia. Finisce anche l’epoca degli stranieri. L’ultimo è Eidefjiall, il grande faticatore.
Arrivano alcuni giocatori ormai a fine carriera. Fra loro Lello Antoniotti, poeta del calcio, centrattacco che con la colonia degli spartani ha fatto la fortuna della Pro Patria, è stato al Torino, alla Lazio, alla Juventus con Boniperti. Alle prese con guai fisici giocherà solo sei partite nel “suo” Novara ma diventerà maestro per le giovani generazioni creando i NAG e farà scuola, a Coverciano, dove lo ricordano ancora. Dall’oratorio di Vigevano arriva Giovanni Moschino, un giovanotto tutto fosforo attorno al quale ricostruire la squadra. Per la capacità di stare in campo e organizzare il gioco lo chiamavano “il piccolo Schiaffino”. A dare continuità rimane Baira, “il cervello libero della squadra” che giocherà sino al 1962 e terminerà la sua carriera con 497 presenze in maglia azzurra.
L’esordio del “Nini”: diventerà l’uomo simbolo
Fra i ragazzi del vivaio si fa largo un tipo lungo e secco. L’ha portato al Novara Ottavio Borzino un vero “talent scout”. Il nostro è Giovanni Udovicich, per tutti il “Nini”. È un profugo di Fiume, gente che sa cos’è la sofferenza. Si è messo in luce nel famoso torneo dei ragazzi di don Aldo Mercoli, una fucina di campioni per il calcio novarese.
Il “Nini” cresce sotto la guida di Evaristo Barrera, maestro argentino di tecnica individuale. In prima squadra ha un esempio per molti, un padre calcistico: Ambrogio Baira, un altro che, col “Nini”, ha fatto la storia del Novara.
L’esordio è da raccontare. Il Novara di Pedersen, in serie B, il 2 febbraio 1958 gioca a Taranto e perde. È la doppia trasferta al Sud, come usava allora, e la squadra si ferma in Puglia perché il 9 febbraio è impegnata a Bari. L’organico è ridotto all’osso da infortuni e squalifiche. Così da Novara partono alla volta del Sud tre ragazzotti: Udovicich, Miazza e Scala. Debuttano tutti. “Mi improvviso centravanti per necessità. Per via del fisico. – racconta il Nini – Mi marca un certo Seghedoni che avrò modo di apprezzare poi come allenatore. Proprio lui va a segnare in mischia il primo dei tre gol con cui perdiamo la partita. Esperienza da dimenticare. Così considero il mio vero debutto il 18 maggio, a Catania quando, nel mio ruolo di difensore, riesco a fermare Buzzin attaccante di stazza e fama”.
Protagonista per 15 stagioni
Quella maglia numero 5 la porterà per 15 anni fino al 30 maggio 1975 quando, con la Ternana disputa la sua ultima partita. Con 516 presenze è il record assoluto in maglia azzurra che difficilmente potrà essere uguagliato. Un uomo simbolo, una bandiera come nel calcio moderno non esistono più. Protagonista di tante battaglie e di due promozioni in serie B. Gli hanno dedicato la curva Nord, quella del tifo più passionale. La sua popolarità varca i confini novaresi e quella del Nini diventa una figura carismatica del calcio nazionale. La sua calvizie incipiente, i baffoni spioventi e i basettoni lo fanno addirittura sembrare più vecchio di quel che testimonia l’anagrafe.
Si disse che Udovicich non abbia mai voluto lasciare Novara per approdare ad una formazione di serie A un po’ per l’innata timidezza, un po’ perché forse non si sentiva pronto per quei palcoscenici. E dire che le offerte non mancavano da Atalanta, Bologna e Roma. Ma non furono mai giudicate così vantaggiose dalla società al punto da privarsi della bandiera. Resterà per sempre un rammarico del campione: “Sì la serie A mi sarebbe piaciuta. Peccato davvero. E pensare che ci sono andato vicino col Novara, nel 1976 quando ci rubarono la famosa partita di Catanzaro. Un vero scandalo”.
Udovicich forma con Alberto Vivian una delle coppie difensive più apprezzare di quei campionati. Con il mestiere poi diventa uno specialista del contatto con l’avversario e dell’anticipo sull’uomo. Diventa così l’incubo dei centravanti allora più celebrati: da Anastasi a Graziani, da Pruzzo a Bui fino a Bercellino coi quali si misura senza remore sul piano tecnico e fisico. Si concede anche qualche giocata estrosa a favore di pubblico, in particolare il tunnel.
Nello spogliatoio è un leader silenzioso. E non toccategli le scarpette. Devono sempre stare davanti a lui, allineate su un predellino. I compagni lo sanno bene ma gli fanno dispetti. Lui reagisce stizzito. Ma in fondo è anche questo un modo per caricarlo. E gli vogliono bene tutti i nuovi che arrivano hanno un po’ di soggezione di fronte a quel gigante che si rivela presto per il carattere buono ed inclusivo. Diventa un simbolo che sventola ovunque, dove gioca il Novara, su quel bandierone azzurro con la sua effige.
Spareggio salvezza con la Triestina e retrocessione per illecito sportivo
Gli anni Sessanta sono caratterizzati da un’altalena di alti e bassi ma c’è una data storica. È l’11 giugno 1961 a Ferrara si disputa lo spareggio con la Triestina per evitare la retrocessione in serie C. Sugli spalti 10 mila spettatori. Da Trieste sono arrivati 18 pullman di tifosi. Il Novara è in controllo ma perde presto Micheletti relegato all’ala, inutilizzato.
Non c ‘erano le sostituzioni. Gli alabardati passano in vantaggio per la disperazione degli azzurri. Ma la squadra incitata da Tino Facchini, l’allenatore, da Tarantola e Marmo, in panchina col dottor Fortina, si riversa nella metà campo avversaria. Micheletti, “lo zoppo” proprio lui centra un pallone che Galimberti, di testa, gira in gol. Ristabilita la parità gli azzurri sono galvanizzati. Si va ai tempi supplementari con Zanetti zoppicante anche lui fuori uso. “Ricu” Bramati, costretto a fare il difensore, serve un pallone lungo proprio a Zanetti. Il Diego da Invorio, colpisce di testa, in maniera un po’ goffa beffando il portiere Luison in uscita. È il gol che vale la salvezza.
Durerà un anno perché la squadra che ha chiuso al decimo posto, subirà l’onta della retrocessione a tavolino per un illecito sportivo. Il massaggiatore degli azzurri avrebbe offerto del denaro ad un suo compaesano, il capitano della Sambenedettese, per alterare il risultato della partita. Il Novara respinge ogni accusa ma la commissione giudicante non ha dubbi e retrocede la società. Resterà un mistero. Anzi un buco nero nella storia della società azzurra.
Peppino Molina riporta il Novara nella serie cadetta
Nell’estate del 1964 c’è una vera e propria mobilitazione. In una riunione alla Pro Novara con tutti i dirigenti della società azzurra nascono i Fedelissimi, il primo club di tifosi azzurri organizzati. L’intervento più applaudito è quello di Peppino Molina, fresco allenatore degli azzurri, che va dritto al cuore dei presenti, come solo lui sa fare.
Da quel momento la folla sarà dalla sua parte, “dodicesimo uomo in campo”, com’è solito ripetere. Viene costruita una squadra molto novarese, con l’inossidabile Lena fra i pali, Volpati, Miazza, Udovicich, Colombo, Testa e Canto in difesa, Pereni e Mascheroni in mezzo al campo e in avanti panzer Bramati con Gavinelli, Milanesi e Cei.
Una squadra che pratica un gioco semplice quanto efficace, che rispecchia l’immagine pratica del suo allenatore. E il pubblico, anche il pubblico tradizionalmente scettico di Novara, è tutto dalla sua parte. Una stagione in crescendo, testa a testa con la Biellese che viene superata grazie ad un impressionante ruolino di marcia nelle ultime gare. È di nuovo serie B.
La tragedia di Alaimo e il trionfo di Parola
Due stagioni di B continuano a dare entusiasmo. La squadra ha un’anima operaia ben rappresentata da Vittorino Calloni e dal generoso Ricu Bramati ed impreziosita dalle individualità di Mascheroni, Giannini e Giampiero Calloni che però a Novara delude un po’ le aspettative di Molina.
Sono le stagioni dei treni speciali organizzati dai Fedelissimi per seguire la squadra a Roma e a Pisa e dell’aereo per la Sicilia, un fatto storico per una squadra di provincia di quegli anni.
Il 1967-68 è un anno sciagurato che comincia subito male: durante le visite mediche all’Ospedale Maggiore muore fulminato Alaimo. L’epilogo, sportivamente, è altrettanto negativo e gli azzurri tornano in C dopo tre stagioni.
A questo punto, con una squadra completamente rivoluzionata, si desidera un pronto riscatto. Dopo un primo anno interlocutorio arriva alla guida degli azzurri Carlo Parola, l’ex campione bianconero famoso per la rovesciata volante. L’inizio non è facile, ma Parola pensa a lavorare sul campo e i risultati alla fine gli danno ragione: promozione al primo tentativo, lanciando Pulici tra i pali, Vivian, Veschetti e Carlet in difesa a fianco di Udovicich, e poi puntando su Carrera, Bramati e Gabetto.
È anche una stagione d’oro per Giannini, che si alterna a Milanesi, e per Vittorino Calloni, tornato in azzurro a faticare per dare respiro a un centrocampo troppo tecnico e poco incline al sacrificio. La grande gioia della promozione si stempera nel rammarico per la scomparsa di Francesco Plodari, alla guida della società fin dal 1958.